Proprio alla fine del mese di Ramadan si riaccendono le tensioni tra israeliani e palestinesi, con un’escalation di violenza che non si vedeva dal 2014 durante l’ultima incursione di Israele a Gaza. Nessun gesto eclatante o grandi dichiarazioni. La questione israelo-palestinese si infiamma nuovamente per piccole tensioni nate nella città frammentata di Gerusalemme. Dapprima il blocco di Israele di un sobborgo molto popolato dai giovani musulmani durante il Ramadan, seguito da proteste contro la polizia israeliana e lo sfratto di molte famiglie di palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah, con l’intenzione di costruire nuovi insediamenti israeliani. A tutto questo si aggiunge il raid all’interno della moschea di al-Aqsa, terza moschea per importanza per i musulmani, dove i palestinesi si trovavano per la preghiera del mese di Ramadan. Tutti piccoli scontri che hanno condotto poi all’escalation di violenza a cui abbiamo assistito in questa settimana. Non sono stati presi di mira solo obiettivi strategico-militari, ma veri e propri palazzi abitati, colpendo perfino la sede di Al-Jazeera e di Associated Press a Gaza, con immagini di interi piani crollati davanti agli occhi di milioni di spettatori davanti alla tv.
La questione israelo-palestinese: un conflitto lungo settanta anni
Le origini della questione israelo-palestinese sono rintracciabili a partire dal 1948 quando, in seguito alla Seconda Guerra Mondiale e alla tragedia della Shoah, l’ONU ha discusso e attuato il Piano di Partizione della Palestina, che avrebbe dovuto dividere l’attuale regione di Israele in due stati sovrani. Questo piano ha tuttavia trovato da subito ostacoli e opposizioni, portando alla “cacciata” di milioni di palestinesi dalle loro terre contro la loro volontà, momento che permane nella memoria del popolo palestinese con il nome di Naqba. Da quel momento hanno avuto inizio gli scontri, che perdurano da più di 70 anni, con il popolo israeliano che vuole radicare il suo potere sul territorio mentre i palestinesi cercano di dimenarsi tra la mancanza di un vero e proprio territorio sovrano, la persistente pressione da parte del regime di Tel Aviv e la mancanza di rappresentanza politica.
La profonda asimmetria tra la forze sul terreno
Una situazione di evidente asimmetria, dice il professore Francesco Saverio Leopardi dell’Università Ca’ Foscari di Venezia: “Da una parte abbiamo uno stato, riconosciuto internazionalmente, sovrano su tutto il territorio di Israele/Palestina e dotato di tutte le istituzioni statuali, in particolare uno degli eserciti più avanzati del mondo – dice Leopardi – Dall’altra una popolazione non sovrana sui territori che abita, con una leadership politica frammentata e ininfluente, e che non gode degli stessi diritti concessi ai cittadini israeliani.” L’ONU stessa, garante della pace e dell’equilibrio internazionale, più volte si è apprestata a denunciare l’atteggiamento di Israele nei confronti dei palestinesi, con numerose richieste culminate nella Risoluzione 2334 del 2016, che chiede ad Israele di porre fine al suo insediamento all’interno dei territori palestinesi, incominciato nel 1967. L’asimmetria del conflitto, lontana dall’essere una mera analisi specialistica, diventa così la chiave di lettura per comprendere ciò che sta accadendo oggigiorno a Gaza, con più di 200 morti e più di 500 case ridotte in macerie sul fronte palestinese contro i 12 morti e le 0 abitazioni distrutte sul fronte israeliano, secondo quanto riporta un’analisi di Al-Jazeera. A questi numeri si aggiungono 58 mila sfollati palestinesi, in cerca di una casa nella regione o nei paesi circostanti. Un caso di “apartheid e di persecuzione”, sottolinea un recente report di Human Rights Watch, che porta ad una netta inferiorità del popolo palestinese rispetto al governo di Tel Aviv in termini di garanzia di diritti umani e di capacità militari per poter sostenere il conflitto.
Nel frattempo, i paesi europei cercano una linea comune per trovare una soluzione che ponga fine agli scontri a Gaza, sotto la guida dell’Alto Rappresentante europeo per gli Affari Esteri Josep Borrell, senza tuttavia riuscire ad emergere dalle consolidate prese di posizione nazionali. E mentre l’Europa si divide su chi sostenere in questo scontro. “La soluzione – spiega il docente della Ca’ Foscari – deve provenire dagli attori direttamente coinvolti e in primis dai palestinesi che oggi, come non mai, soffrono di una grave crisi di rappresentanza politica”.