L’Europa ferma la ratifica del Cai con la Cina, ma invece di segnare una importante punto di forza nella relazioni con Pechino, rischia di ritrovarsi indebolita ulteriormente dinanzi alla politica commerciale espansionista di Pechino.
Già il 6 maggio il vicepresidente della Commissione europea Valdis Domborvskis aveva annunciato l’interruzione del processo di ratifica del “Comprehensive Agreement on Invesmtent” (Cai) da parte del Parlamento europeo. Si tratta di un accordo con l’ambiziosa proposta di fornire alle due parti una base giuridica unica sugli investimenti, sostituendo di fatto il fascio di accordi bilaterali che lega singolarmente ogni paese membro con la Cina. Secondo le dichiarazioni, il clima creato dalle sanzioni dell’Ue contro la Cina e le contro-sanzioni cinesi è inadeguato alla ratifica dell’accordo.
Il Cai era stato approvato nel dicembre 2020, dopo sette anni di negoziazioni. Secondo la Commissione europea l’accordo sarebbe stato un successo con due importanti funzioni. Per prima cosa, avrebbe impegnato la Cina a cristallizzare i suoi impegni in termini di commercio e investimenti in un contesto multilaterale. Questo non solo avrebbe permesso di spezzare la strategia divide et impera messa in atto dal governo cinese, e accolta di buon grado dagli stati membri europei, ma avrebbe fornito finalmente una base giuridica chiara per gli impegni assunti dalle parti sul tema della regolamentazione, e tutela, degli investimenti nelle due aree economiche.
La tutela degli investitori europei che operano in Cina è un aspetto fondamentale. Non ha solo un’importantissima rilevanza economica – negli ultimi vent’anni sono stati investiti nel mercato cinese circa 140 miliardi di euro – ma anche politica. Le aziende europee in Cina agiscono non di rado subiscono discriminazioni di varia natura. Discriminazioni che non vengono subite dalle imprese cinesi nel mercato europeo, molto più tutelato e accogliente per gli investitori esteri.
Come sottolinea Giovanni Andornino, docente di Relazioni Internazionali dell’Asia Oreintale all’Università di Torino, in audizione al Senato il 6 maggio “il Cai ha certamente una sua valenza individuale, ma per comprenderlo bisogna tenere presente che è solo uno di una varietà di strumenti messi in campo in anni recentissimi”. Dal 2019 infatti l’Europa ha compiuto passi da gigante nella creazione di un approccio comunitario e corale per le relazioni con la Cina. L’accordo, se ratificato, sarebbe stato “inserito in uno strumentario che contiene leve e spazi di policies attraverso cui assicurarsi che la parte cinese faccia passi verso i nostri interessi. Sono loro a dover recuperare e fare passi maggiori”.
Appare sempre più chiaro come la mancata ratifica, invece che essere una punizione verso la Cina, sia un’occasione mancata per l’Unione Europea.
La decisione di non portare avanti l’accordo è arrivata dopo una tirata d’orecchie dell’amministrazione Biden, che non ha visto di buon occhio il fatto che il suo principale alleato stesse tessendo relazioni così strette con il suo peggior avversario. L’influenza americana è tornata a farsi sentire in Europa, ma questo non è detto che sia d’aiuto all’Unione.
Non a caso i più grandi sforzi diplomatici fra Ue e Cina sono avvenuti proprio durante la presidenza Trump, che ha portato gli Usa a districarsi dal multilateralismo e a concentrarsi maggiormente sui propri interessi. Mentre infatti noi portavamo avanti i negoziati del Cai, Trump nel gennaio 2020 ratificava il Phase one, accordo commerciale ed economico fra Usa e Cina. Alla luce dell’accordo fra le due potenze, “gli investitori europei rimangono doppiamente svantaggiati” – continua Andornino. Non solo nei confronti delle imprese cinesi, ma anche di quelle “alleate” statunitensi che operano in Cina godendo di tutele e privilegi a loro negate. “L’accordo avrebbe consentito un allineamento formale con l’alleato statunitense, e quindi una maggiore forza negoziale futura”, soprattutto in un momento particolarmente delicato come quello che si presenta nel nostro futuro.
L’autonomia strategica è uno dei pilastri della strategia futura cinese, cioè lo spostare entro i propri confini le più importanti filiere produttive, così come di altre grandi potenze, e per affrontarlo un piano giuridico e normativo comune si rivela fondamentale.
Quella che sembra essere un’importante affermazione politica europea, la decisione di non voler concludere accordi con la Cina in questo momento di tensioni, si rivela un vulnus strategico rischioso. Abbiamo nuovamente rinunciato alla costruzione di un’identità precisa europea davanti a un importante avversario per tornare sotto le ali di un alleato che ci tiene sotto il suo giogo invece di lasciarci crescere e difenderci da noi.